Lazzari e scugnizzi

I lazzari

È ormai risaputo che con il termine “lazzari” venivano indicati i ragazzini laceri e miseri tipici della Napoli del Sei cento. È infatti alla rivolta di Masaniello che si fa risalire la prima presenza “politica” di questi giovani smunti e laceri, pronti a godersi i giorni di festa come quelli di guerra. Antenati degli scugnizzi, rappresentavano il ceto più basso della plebe, quello che viveva per strada, senza mestiere e senza casa, devoto soltanto ad una cosa: la libertà. Infatti, i lazzari, dopo aver appoggiato Masaniello, presto si pentirono di questo supporto e saranno proprio loro a condannarlo a morte.

Il termine “lazzaro” parrebbe provenire, secondo l’abate Galiani, dai lebbrosi, che avevano per protettore San Lazzaro.  Questa interpretazione va aggiunta però anche la denominazione spagnola secentesca della turba di làzaros, cioè di persone seminude e cenciose che gli stessi consideravano un titolo di tutto rispetto, in quanto lo facevano discendere direttamente dal Lazzaro del Vangelo.

Il lazzaro è caratterizzato dalla giocosità, dal duo modo particolare di oziare e di inventarsi un lavoro per vivere solo quando ne ha voglia, di godersi il clima mite ed il sole. Eredità della dominazione spagnoli, si associava talvolta anche ad una piaga anch’essa di origini spagnole: la camorra. Il confine tra i lazzari e i malavitosi era piuttosto labile lazzari malavitosi parlavano con un linguaggio segreto, una lingua da setta segreta, incomprensibile alle orecchie di chi non era del giro. Avevano costituito una gerarchia vera e propria e i loro capi erano ben conosciuti anche a corte.

Alla fine del Settecento, i lazzari subiscono una trasformazione, staccandosi dal resto della plebe e costituendo una “classe” a parte ed operano come un freno nelle rivolte, non per senso civico, ovviamente, ma per un mero senso di egoismo, che li porta a parteggiare per l’autorità per non finire al patibolo. Durante la Repubblica Napoletana, infatti, affiancheranno l’esercito sanfedista contro i rivoluzionari.

Gli scugnizzi

Con l’unità d’Italia, a Napoli non ci fu un miglioramento delle condizioni di vita, anzi, la miseria e la fame, associate ad alcune calamità naturali, infierirono sul popolino ancora di più. La giornalista inglese Jessie White Mario, arrivata insieme a Garibaldi a Napoli nel 1860, e poi ritornata nel 1876, dà una descrizione allucinante della plebe che vive in città, ammassata in fondaci, grotte e perfino ipogei. La sua attenzione si posa soprattutto sui bambini che vivono in queste condizioni: quasi nudi, scalzi, rachitici abitano in vicoli puzzolenti e lerci, esposti alle grinfie della camorra, portano coltelli tra i brandelli di vestiti. Li chiamano guagliuni, anche detti scugnizzi, eredi dei lazzari dei secoli precedenti.

Questi ragazzi vivono da soli, orfani o comunque abbandonati dai genitori; molti di loro non hanno ricordi infantili se non di orfanotrofi freddi e insensibili. L’unico giorno positivo per loro era il 25 marzo di ogni anno, quando l’Annunziata apriva le sue porte per permettere ai visitatori di scegliere un figlio da adottare o una ragazza da sposare.

Passarono molti anni in cui i bambini di strada dovettero adattarsi a vivere nell’indigenza e nell’allegria, nonostante tutto, finché un evento terribile li rese di nuovo protagonisti: la seconda guerra mondiale e soprattutto il suo epilogo. Il 25 luglio il regime fascista era caduto, portando  all’armistizio e all’occupazione tedesca. Il 12 settembre Napoli si ritrovò occupata da un governo militare tedesco. Sul Roma, unico giornale autorizzato alla pubblicazione, il colonnello Scholl annunciava di aver assunto i pieni poteri militari e civili di Napoli e dintorni. Avvertiva la popolazione, inoltre, che chi si sarebbe comportato secondo disciplina non avrebbe avuto problemi, ma che chi avesse trasgredito, sarebbe stato passato per le armi. Inoltre, fissava la vendetta per l’uccisione di ogni tedesco a 10 civili. Passarono venti giorni, durante i quali furono rastrellati uomini, furono fucilati numerosi innocenti, fu appiccato il fuoco all’università per intimorire la popolazione e costringere tutti gli uomini tra i 18 e i 33 anni ad arruolarsi per essere deportati in Germania. Nonostante tutto, Scholl riuscì a raggruppare solo 150 persone circa e questa situazione fu la miccia per la resistenza della città che culminò nelle Quattro Giornate, dal 27 al 30 settembre 1943. In questa guerriglia urbana improvvisata, gli scugnizzi la fanno da padrone, con armi improvvisate e imparano da soli a manovrare una mitragliatrice o un panzer rubato al nemico. Uno degli avamposti tedeschi fu il campo sportivo del Vomero, dopo furono portati 50 giovani catturati per rappresaglia. Nel pomeriggio del giorno dopo, gli scugnizzi avvertirono il Fronte unico Rivoluzionario, di stanza nella Villa Floridiana,  che le autoblinde tedesche stavano salendo verso la collina e la resistenza preparò l’attacco. La trappola scattò e si sparò dagli edifici dei dintorni, finché, a sera, i giovani napoletani chiesero a Scholl di trattare. A notte fonda l’accordo si trovò: gli ostaggi furono rilasciati e i tedeschi sarebbero usciti dalla città verso Bagnoli senza che si sparasse. La città era libera. Gli scugnizzi ebbero un ruolo di primo piano in queste quattro giornate furono insigniti della medaglia d’oro; furono il simbolo della resistenza napoletana, soprattutto, uno su tutti, Gennaro Capuozzo, un dodicenne che si distinse per la celerità con cui passava le notizie ai combattenti.

Nel dopoguerra, gli scugnizzi impararono ben presto l’americano per farsi regalare qualche spicciolo da soldati e marinai o offrire i loro servigi ai turisti arrivati a Napoli. Nei decenni successivi, si sono “riciclati” per il contrabbando di sigarette. Negli anni Cinquanta, molti furono ospitati preso famiglie emiliane e toscane, in una gara di solidarietà per offrire loro un posto dove vivere durante la ricostruzione.

Gli scugnizzi sono stati anche i protagonisti di numerose opere d’art, dalla poesia al teatro, dalla canzone al cinema. Basti citare quelli descritti da Raffaele Viviani nelle sue opere teatrali, gioiosi e semplici, e nella sua canzone memorabile ‘A rumba d’ ‘e scugnizze o quelli ritratti da Vincenzo Gemito nei suoi quadri. Una menzione speciale meritano quelli rappresentati da Vittorio De Sica nel suo Sciuscià o quelli di Nanni Loy, protagonisti del film Le quattro giornate di Napoli.

 

Gioia Nasti
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