Masaniello, il pescivendolo rivoluziario

La vicenda di Masaniello si svolge in una Napoli secentesca popolosa e tartassata. Anche i nobili ormai vivono in città e in grandi palazzi, perché le dimore sono il primo modo di mostrare la loro ricchezza. Inoltre, la città è la sede della Corte, e i nobili tengono a partecipare alla vita cortigiana. Accanto alla nobiltà c’è quello che viene definito il ceto civile; si tratta soprattutto di professionisti ed impiegati della pubblica amministrazione che cercano il loro posto all’interno della scala gerarchica. Infine, il ceto popolare, che lascia la provincia e si riversa in città. Le piazze cominciano ad avere un ruolo centrale insieme alle porte della città, dove si svolgono i commerci, si pagano le tasse e i dazi per sovvenzionare i capricci e le pretese della monarchia spagnola. Queste tasse colpiscono soprattutto la povera gente, anche perché nobili, clero e commercianti ne sono esenti. È in questo clima che fa la sua comparsa per la prima volta la figura del lazzaro. il termine deriverebbe dallo spagnolo “lacerìa”, che vuol dire sia lebbra che miseria e denoterebbe un personaggio napoletano caratterizzato dalla misera condizione economica, eppure dalla allegria prorompente, da una certa ostilità per il lavoro, eppure portato ad impegni se stimolato a dovere.

Masaniello nasce a Napoli a soltanto 4 mesi dal matrimonio dei genitori, quindi già segnato dalla “colpa”; pescivendolo e non pescatore come alcuni autori avrebbero scritto, Tommaso Aniello viene descritto da alcuni come persona rissosa ed orgogliosa, ma anche giovane furbo, che cerca in tutti i modi di sfuggire ai gabellieri come oggi si cerca di evadere il Fisco, in modi più o meno leciti. Nell’estate del 1647, Masaniello ha 27 anni; la prima domenica di luglio incontra alcuni compagni in un’osteria in gran segreto per fare il punto della situazione riguardante le gabelle imposte dalla monarchia spagnola che stanno opprimendo il popolino. Masaniello è già contrariato oltremodo per l’arresto della moglie Bernardina per contrabbando e l’aggiunta di nuove tasse sembra rivelarsi un espediente per dare sfogo alla sua voglia di vendetta. È in questo incontro che si abbozza un piano per bloccare la pressione fiscale spagnola, da mettere in atto in Piazza Mercato durante le feste per la Madonna del Carmine.
La Festa della Madonna del Carmine culminava il 16 luglio in Piazza Mercato con l’allestimento di una macchina di festa. Al centro della piazza sarebbe stato eretto un finto castello che gli alarbi (termine dialettali per “arabi”) devono attaccare. Questi erano tutti ragazzi tra i 14 ed i 17 anni, che quell’anno Masaniello aveva scelto personalmente sotto incarico dei monaci carmelitani; aveva procurato loro perfino i bastoni per l’assalto. Insomma, aveva preparato tutto al meglio per la sua vendetta personale e quella di tutto il popolo contro l’oppressione fiscale spagnola.

La scintilla che diede fuoco alle polveri la domenica del 7 luglio 1647 fu il rifiuto di pagare le gabelle da parte dei venditori di frutta puteolani, i quali addussero a scusa che quelle tasse le dovevano pagare i fruttivendoli di Piazza Mercato, che, a loro volta, si rifiutarono fermamente. Da questo alterco tra fruttivendoli si passò alle mani: l’Eletto del Popolo, don Andrea Naclerio, diede uno schiaffo al cognato di Masaniello, tale Maso Carrese; questi reagì pesantemente, buttando per aria tutta la frutta. Ben presto si formò un corteo, capeggiato da Masaniello e da suo fratello Giovanni, diretto al palazzo del viceré. Quest’ultimo, spaventato dai tumulti, promise di togliere le gabelle sulla frutta e sulla farina.
L’8 luglio i tumulti ripresero, e i rivoltosi cercarono di procurarsi delle armi più idonee dei bastoni per l’assalto al finto castello di Piazza del Carmine. Tutta la città fu nelle mani dei lazzari e accanto a Masaniello comparve un altro personaggio, molto scaltro: Miccaro Perrone. Fu in quel giorno che iniziarono le vere e proprie trattative; il viceré mandò il principe di Satriano e Tiberio Carafa ad incontrare i rivoltosi, i quali chiesero non soltanto l’abolizione certificata delle gabelle, ma il ristabilirsi dei privilegi concessi a suo tempo da Carlo V.
Sebbene il viceré avesse inviato a Piazza Mercato una nuova delegazione ed un nuovo documento di abolizione delle gabelle, il risultato non fu quello sperato; il principe di Montesarchio, capo della delegazione, fuggì terrorizzato dopo che la folla aveva dichiarato che il documento da lui presentato era falso. Allora il viceré inviò Diomede Carafa, duca di Maddaloni, e suo fratello Giuseppe, con il documento da firmare, ma anche questa volta il risultato fu scadente. I rivoltosi presero Carafa prigioniero ed lo affidarono a Miccaro Perrone e a Bernardino Grasso. Intanto, la rivolta si espanse e Masaniello fu nominato Capitano Generale del Popolo di Napoli. La sua attività si intensificò: ordinò di cessare i saccheggi e le violenze, impose la riduzione del prezzo del grano ed amministrò la giustizia. Immediatamente il viceré rispose con l’esenzione delle gabelle ed il ripristino dei privilegi concessi da Carlo V.
Il 10 luglio, mercoledì, vide l’esecuzione capitale di Giuseppe Carafa, fratello del duca di Maddaloni, in Piazza Mercato, colpevole, insieme al fratello Diomede, di aver organizzato un attentato ai danni di Masaniello. Svanita, quindi, la possibilità della mediazione tramite i nobili, il viceré decise di cambiare personaggio, affidando il gravoso compito all’arcivescovo cardinale Ascanio Filomarino. La sera dell’11 luglio un corteo accompagnò Masaniello alla recita del Te Deum per il ringraziamento del trovato accordo sui Capitoli insieme al cardinale Filomarino, la cui azione era stata finalmente vincente. Ma l’atteggiamento di Masaniello aveva subito una svolta; fu attanagliato da timori di attentati, ma soprattutto dalla paura di dover cambiare egli stesso. Il viceré, infatti, gli aveva fatto mandare dei vestiti adeguati all’occasione, che Masaniello reputava un diniego delle sue origini. Il 13 luglio furono finalmente firmati i Capitoli, che sancivano la vittoria del popolo su nobili e viceré e la conquista dei privilegi e l’abolizione delle tanto odiate gabelle.
Il 16 luglio, il giorno della Festa della Madonna del Carmine, che doveva siglare la vittoria del popolo, divenne un giorno invece tristemente ricordato per la tragica conclusione dell’avventura di Masaniello. Egli si era infatti recato nella chiesa del Carmine per assistere alla liturgia celebrata dal cardinale Filomarino e proprio in quella chiesa fu ucciso su commissione del viceré e probabilmente con tacito assenso del cardinale Filomarino, la sua testa portata in giro per la città ed infine appesa alle mura delle Fosse del grano. Tutti i partecipanti a questo dramma poterono dirsi soddisfatti dell’epilogo: il viceré aveva ottenuto ciò che voleva, cioè eliminare Masaniello e fermare i moti rivoluzionari; il Genoino, la mente di Masaniello, aveva ora campo libero per attuare una politica riformista ma moderata; il cardinale Filomarino, dopo la mediazione, aveva ora la certezza che nulla poteva turbare le acquisizioni avvenute con la sua opera; perfino il popolo era contento di essersi disfatto di un capo che cominciava a dare segni di squilibrio.
Sfortunatamente, il 17 luglio tutto ritornò come prima di quei 10 giorni terribili; allora le persone del popolo si ricordarono di quell’eroe che aveva combattuto per loro e, recuperato il corpo del povero pescivendolo e ripulitolo, imposero un funerale degno di una personalità.

Gioia Nasti
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