Le anime pezzentelle (1)

A Napoli è risaputo che il confine tra il sacro ed il profano e tra il mondo dei vivi e quello dei morti è particolarmente sottile. È solo in questo luogo, in cui tutto si mescola, che poteva nascere un culto così particolare come quello delle anime pezzentelle, cioè, in napoletano, le anime “povere”. Si tratta di un culto molto antico, secondo cui un vivo “adottava” i resti di un morto anonimo e se ne prendeva cura; di solito veniva adottata la “capuzzella”, cioè la testa, il teschio, più raramente anche le altre ossa. La scelta del teschio non seguiva particolari criteri, ma era dettato dal caso o, talvolta,  era lo stesso morto che visitava in sogno il vivo e gli dava indicazioni per trovare le sue ossa.

Il teschio era scelto tra i tanti resti sparsi nei cimiteri o nelle chiese della città, vittime di epidemie. Una volta identificato il teschio da adottare, il vivo lo puliva e lo lucidava, poggiandolo poi su un fazzoletto ricamato o addirittura su un cuscino. Quindi si aggiungevano fiori e lumini e talvolta una corona del Rosario. Si trattava però di un “accordo” di mutua utilità: il vivo curava le ossa del morto e gli assicurava il refrisco, cioè il refrigerio, nel senso che ne alleviava le sofferenze in Purgatorio pregando per lui, e il morto, in cambio, esaudiva le richieste del vivo (un buon lavoro, un buon matrimonio, qualche numero da giocare al lotto). Se queste richieste non venivano esaudite, il vivo poteva fare dei dispetti, non pulendo spesso il teschio oppure non pregando e, se questo ancora non bastava, il vivo poteva abbandonare quel teschio e scegliersene un altro. Se, invece, le richieste venivano esaudite, il vivo comprava dei regali, come dei vestiti oppure faceva costruire addirittura una sorta di cappellina che ospitasse il cranio.

Questa usanza dell’adozione dei teschi viene fatta risalire al XVII secolo, in occasione della peste a Napoli nel 1656, quando i due terzi della popolazione furono decimati dall’epidemia e le strade erano disseminate di cadaveri. La fretta di disfarsi dei corpi non permise di dare singola sepoltura ai morti, che furono ammassati nelle chiese, nelle cripte e in fosse comuni. Fu in quel periodo che nacque l’esigenza di pregare per le anime del Purgatorio che non avevano parenti in vita che pregassero per loro. Tre sono i luoghi tipici in cui possiamo comprendere meglio l’usanza dell’adozione dei teschi: la basilica di S. Pietro ad Aram, la chiesa di S. Maria del Purgatorio ad Arco e il Cimitero delle Fontanelle.

  1. Pietro ad Aram

Completamente inglobata in un palazzo alla fine di Corso Umberto I (il “Rettifilo”), la chiesa di S. Pietro ad Aram passa quasi inosservata a chi si affretta verso altre destinazioni. All’origine di questa basilica la leggenda che racconta del passaggio a Napoli, nel 44 d.C., di San Pietro. Il santo fu avvicinato da un’anziana donna che lo pregò di guarirla; ella fu esaudita e si convertì. Portò quindi a S. Pietro un suo amico di nome Aspreno e anche lui fu guarito e si convertì. La leggenda dice anche che fu proprio Aspreno, divenuto poi vescovo di Napoli, a fondare la basilica dì dove Pietro aveva compiuto le due guarigioni e dove lo stesso Pietro avrebbe officiato messa (da qui il nome della chiesa “ad Aram”, cioè “presso l’altare”).

Sotto questa basilica se ne trova un’altra molto antica, alla quale si accede attraverso una scala posta nel transetto sinistro. Si tratta di una chiesa a tre navate utilizzata dalle prime comunità cristiane come cripta per dare sepoltura ai morti durante le persecuzioni dei romani. Qui si trova anche un pozzo che, pare, avesse il dono di alleviare i dolori del parto.

La chiesa di S. Pietro ad Aram fu il centro da cui partì e si propagò il culto delle anime pezzentelle che, però, la Curia napoletana non approvò mai e, anzi, cercò di fermare murando le ossa nella cripta; tuttavia, l’usanza non si fermò e la posizione originaria dei teschi, ai quali il popolo continuò ad accendere lumini e a portare fiori, fu tramandata oralmente.

Seconda parte   

Gioia Nasti
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