Storia linguistica di Napoli (2): dagli Aragonesi al Viceregno

Nel 1442 Napoli passò sotto il dominio degli Aragonesi con Alfonso il Magnanimo, il quale avviò una ricostruzione immediata della città, alla quale si associò un primato politico, culturale, economico e commerciale. Grazie alla frenetica attività mercantile, si incrociarono a Napoli diverse lingue; inoltre, a Castel Nuovo, ormai residenza reale, si parlavano non solo latino e lingua locale, ma anche catalano e castigliano. Alfonso il Magnanimo amava riunire intorno a sé letterati ed intellettuali provenienti da ogni dove; tra questi troviamo Gioviano Pontano (Umbria), Antonio Beccadelli, detto il Panormita (Palermo), Lorenzo Valla (Roma), Enea Silvio Piccolomini (Siena), Giovanni Brancati (Policastro), Diomede Carafa. Ciò determinò una convivenza prolungata del napoletano con le altre lingue in una situazione di plurilinguismo, ma non di prestigio (che era destinato ancora al latino). Tutti questi intellettuali formarono la cosiddetta Accadeia Alfonsina (divenuta Accademia Pontaniana dopo la morte di Alfonso e sotto la direzione di Pontano, appunto). In questo ambito, la lingua prediletta dagli intellettuali era il latino, mentre il volgare era ancora piuttosto criticato, sebbene fosse parlato anche nel castello.

Morto Alfonso, gli successe il figlio Ferrante; nel periodo del suo regno, si affermò il volgare anche come lingua letteraria. L’evento più importante in questo senso fu il dono di un manoscritto, Raccolta Aragonese, che Lorenzo de’ Medici e Angelo Poliziano inviarono al figlio di Ferrante, Federico. Si trattava di una raccolta di poeti toscani dal Duecento in poi. Anche la famiglia reale aragonese era solita inviare a Lorenzo doni letterari; uno di questi fu una novella del Novellino di Masuccio Salernitano.

I primi tentativi di uso del volgare in letteratura a Napoli furono quelli di Pietro Jacopo De Jennaro, Francesco Caracciolo, Giovanni Aloisio e soprattutto Jacopo Sannazzaro, ma solo nella seconda metà del XV secolo si cominciò ad assistere ad un orientamento decisamente più marcato verso il volgare toscano. Per quanto riguarda gli ambiti, invece, si assistette all’uso del volgare anche nei documenti amministrativi e burocratici, l’uso del volgare catalano fu affiancato dal volgare locale per la redazione di documenti ufficiali, registri di cancelleria, tenuta delle spese, registrazioni dei movimenti di denaro e perfino lettere personali della famiglia reale. Ovviamente, il volgare utilizzato allora non va assimilato al napoletano di oggi; chi lo util8izzava, infatti, era già avvezzo all’uso del latino e del catalano stesso e si discostava fortemente dalla lingua parlata allora.

In ambito letterario, molti intellettuali si dedicarono al genere dello gliommero operando una scelta consapevole nell’utilizzo di una lingua molto simile alla parlata del popolo. Lo gliommero (che letteralmente significa “gomitolo”) era un monologo che solitamente veniva recitato durante il periodo di Carnevale ed era un componimento dedicato all’intrattenimento colto della corte. Genere popolareggiante in endecasillabi con rimalmezzo, era tutt’altro che popolare; esso richiedeva infatti una certa dose di maestria ed alludeva al popolo solo per imitazione del lessico ed argomenti trattati.

Diversamente, i cronisti utilizzavano un’altra varietà di volgare, meno influenzata dalla supremazia del toscano e stilisticamente meno ineccepibile. Già abituati anche alla comunicazione orale, essi usavano una lingua che era diversa sia da quella dei funzionari e dei burocrati, da un lato, sia da quella dei letterati, dall’altro; una lingua più vicina alla parlata senza, tuttavia, esserne identica.

Nella prima metà del XVI secolo, quando il Regno di Napoli divenne viceregno spagnolo, la città cambiò ancora assetto urbanistico, espandendosi innanzitutto a monte di Via Toledo (che prende il nome proprio dal viceré Don Pedro de Toledo) per fare spazio ai Quartieri Spagnoli, che devono accogliere le truppe. La stratificazione sociale (popolo, immigrati, burocrati e funzionari, professionisti, ricchi mercanti, nobiltà e clero) si rifletté ampiamente in una molteplicità di lingue e parlate: i nobili, la corte, gli intellettuali utilizzavano una lingua colta e si distinguevano dal popolo che adottava una parlata volgare; a metà strada si trovava la borghesia, presso cui la lingua comune e il dialetto locale si incontravano.

Questa situazione fu “fotografata” (in forma ironica) dalla Vaiasseide di Giulio Cesare Cortese, in cui, accanto a forme locali, si trovavano forme dell’italiano letterario e perfino forme auliche. Paradossalmente, fu proprio in questo periodo di grande diffusione dell’italiano che la letteratura dialettale cominciò ad avere una sua identità ed una sua dignità. Due autori dialettali, Giulio Cesare Cortese e Giambattista Basile, scelsero di produrre dei testi per documentare quelle forme che altri autori, invece, volevano evitare. Il loro dialetto era caratterizzato dalla concretezza e dava allo stesso una dignità letteraria, anche se si trattava di una lingua concreta, bassa, non contaminata da forme più auliche ma abbastanza aderente a quella parlata dal popolo.

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Gioia Nasti
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