Storia linguistica di Napoli (3): dai Borboni ad oggi

Nel 1743 salì al trono Carlo di Borbone, con il quale iniziò una fase di forte crescita. Da un lato, la ricostruzione post terremoto (che colpì Napoli nel 1688), dall’altro la volontà di Carlo di dare alla città nuovi edifici e strade portarono ad un rinnovamento completo: l’Albergo dei Poveri, la Reggia di Capodimonte, la Reggia di Portici, la Villa Comunale, il Teatro S. Carlo sono solo degli esempi del nuovo volto di Napoli.

Dal punto di vista linguistico si accentò il divario tra italiano e dialetto; in particolare, si affacciò la necessità di un purismo linguistico legato all’italiano propugnato, in prima istanza, dal medico irpino Leonardo Di Capua, il quale raccolse intorno a sé altri intellettuali che sentivano la sua stessa esigenza. Nel 1754 accadde qualcosa di sensazionale in questo senso: per la prima volta, grazie ad Antonio Genovesi, l’italiano soppiantò il latino in una lezione universitaria; nello stesso periodo, nell’ambito burocratico e legislativo, l’italiano cominciò gradualmente a sostituire il latino, mentre il napoletano veniva “relegato” nell’ambito della comunicazione orale, anche di persone con una certa cultura.

In questo periodo entrarono a far parte del napoletano altri francesismi, essenzialmente legati alla cucina: crocchè (da croquette), gattò (pasticcio di patate, da gateau), ragù (da ragout), sartù (pasticcio di riso, da sur tout), tuttora presenti nella lingua. In letteratura, dopo Cortese e Basile, il napoletano si caratterizzò sempre più come lingua di letterati accademici; d’altro canto, un nuovo genere fece la sua apparizione: era l’opera buffa, in scena durante il periodo di Carnevale, che utilizzava, insieme al dialetto, nuovi elementi lessicali via via acquisiti.

Il divario tra italiano e dialetto andò accentuandosi sempre più, nonostante il fatto che l’italiano parlato a Napoli mostrasse delle caratteristiche fonetiche tipiche del dialetto; questo divario verrà sancito definitivamente dall’Unità d’Italia e dall’esigenza di insegnare a scuola una lingua nazionale uguale e comprensibile per tutti.

Dopo l’Unità d’Italia, l’assetto cittadino cambiò ancora: il centro storico cominciò a spopolarsi e fu considerato “centro” la zona di Via Chiaia e Via Toledo soprattutto dagli abitanti dei nuovi quartieri del Vomero e di Fuorigrotta. Inoltre, molti borghi e comuni, una volta autonomi, furono inglobati fino a formare la nuova periferia urbana: Agnano, Soccavo, Pianura, Secondigliano, Chiaiano, S. Giovanni a Teduccio, Barra, Ponticelli, S. Pietro a Patierno, borgo Loreto, borgo S. Antonio Abate.

La letteratura in dialetto nell’Ottocento ebbe un’enorme diffusione; in particolare, dopo l’Unità d’Italia, quasi come a voler contrastare l’avanzata dell’italiano, l’uso del dialetto fu visto come innovazione positiva. Basti ricordare poeti del calibro di Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo e drammaturghi come Eduardo Scarpetta e Raffaele Viviani, seguiti a ruota dal grande Eduardo De Filippo. Non va dimenticato, inoltre, che l’Ottocento (e fino almeno alla prima metà del Novecento) fu l’epoca d’oro della canzone napoletana, per la quali grandi poeti scrissero in qualità di parolieri. Furono dunque la canzone ed il teatro i mezzi di comunicazione orale attraverso cui il napoletano mantenne il proprio prestigio e la propria dignità di lingua.

Il dialetto continuò ad evolversi anche in questo periodo; il cambiamento, benché evidente tra le forme attuali e quelle, ad esempio, del Trecento o del Quattrocento, è stato lento e graduale, caratterizzato prima dalla coesistenza delle forme diverse e poi dall’eliminazione di quella meno usata. Vi si ritrovano forme abbreviate di preposizioni articolate (de lo diventa d’’o, pe lo  diventa p’’o) o di preposizioni semplici (da diventa ‘a, de diventa ‘e) o ancora di voci verbali (haje diventa he, avimmo diventa amma), l’apocope negli infiniti dei verbi (tenere diventa tene’, magnare diventa magna’) e nei vocativi (signore diventa signo’, Pascale diventa Pasca’). Ci sono poi nuovi termini che entrano a far parte del dialetto. Un caso emblematico è quello del termine sciuscià, inserito nel dialetto con l’ingresso degli americani alla fine della seconda guerra mondiale; questo termine, infatti, indicava il lustrascarpe e derivava dalla locuzione americana shoe shine, con cui gli statunitensi identificavano appunto i ragazzi che facevano questo mestiere (shoe significa scarpa e shine vuol dire splendere). Altri nuovi termini sono entrati in napoletano mutuandoli dal gergo giovanile: paria’ (divertirsi) o pezzotto (un pezzo identico all’originale ma falso).

L’influenza più grossa però è quella che il napoletano ha avuto sull’italiano. Ne sono esempi il raddoppiamento di b e g intervocalica (libbro e raggione), la palatale intervocalica trasformata in fricativa (piace diventa piasce), la s in fricativa palatale (freshco anziché fresco), la confusione tra sorda e sonora per c e g, ecc.

Oggi il dialetto ha ormai acquisito status di lingua ed è vivo ed attivo, sempre trattato con riguardo perché lingua d’arte. In realtà non ha mai conosciuto fasi di decadenza, grazie anche all’uso estensivo nel cinema, nel teatro, nella musica, tanto che ultimamente si è perfino pensato di insegnarlo a scuola.

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Gioia Nasti
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