La lingua napoletana: breve introduzione

Nella sua opera Del dialetto napoletano, l’abate Ferdinando Galiani afferma che “solo le menti superficiali possono persuadersi che quella lingua latina, che a noi han tramandata le immortali opere de’ Ciceroni, de’ Virgili, de’ Livi, degli Orazi e di altri, sia stata la generale e sola lingua di tutto l’impero romano”. È un dato di fatto, in fin dei conti, che l’idioma latino si divise in due forme, l’una colta, utilizzata per scrivere le opere dei grandi autori o i documenti ufficiali, l’altra ibrida, che, parlata dal vulgus, ma anche dai romani colti, accolse anche termini delle popolazioni locali che furono inglobati nell’uso corrente.

Le antiche terre appartenenti al successivo Regno di Napoli erano state abitate da diverse popolazioni prima di essere conquistate dai Romani: i Sabini occupavano l’Abruzzo ed il Principato Ultra fino a Venosa, i Lestrigoni abitavano la Terra di Lavoro e i Lucani, infine, si trovavano nelle zone della Basilicata, del Principato Citra e in alcune parti della Calabria Citeriore. Le lingue di queste popolazioni sono tuttora sconosciute, però certamente ebbero un ruolo di primo piano nel passaggio dal latino al volgare. Inoltre, a queste lingue va aggiunto anche il greco, parlato nelle colonie della Magna Grecia e, con precisione, nelle Puglie, nelle Calabrie, nel Principato di Otranto, nella Lucania e nella Campania. Questo era il sostrato linguistico quando i Romani conquistarono la parte meridionale dell’Italia. Gli abitanti di allora, quindi, nel parlare essenzialmente, ma anche nello scrivere testi privati o commerciali, utilizzavano un linguaggio che, fondamentalmente, mescolava tutte queste lingue o parti di esse. Bisogna anche sottolineare che la dicotomia tra latino e volgare era da sempre stata presente, così come oggi esiste una lingua italiana utilizzata per scrivere ed una per il parlato, intrisa di termini gergali e dialettali.

Si deve cominciare questa breve storia della lingua napoletana partendo dal latino, lingua ufficiale dell’impero romano in tutti i territori conquistati. Ovviamente, come specificato in precedenza, il cosiddetto “latino classico” era essenzialmente utilizzato dalle alte sfere della gerarchia romana, mentre quello che si diffondeva tra le classi medie e basse era una forma “minore”, contaminata sia da elementi locali della penisola, sia da elementi provenienti da altri territori. Fu proprio questo tipo di latino, fatto di integrazioni di termini provenienti dalle parlate locali dei territori conquistati, che fu infine chiamato “volgare”, cioè parlato dal vulgus, dal popolo, per distinguerlo dal “latino classico”, essenzialmente utilizzato nelle opere letterarie e nell’amministrazione. Questa diffusione del latino volgare, insieme alla disgregazione dell’impero conseguente alle invasioni barbariche, è alla base della formazione delle cosiddette lingue romanze (o neolatine). Ovviamente, non è possibile ravvedere un momento preciso del passaggio tra latino e lingue romanze, né, in verità, tra latino e volgare, in quanto si tratta di un processo evolutivo lento e progressivo, esattamente come la crescita di un individuo. Così come l’evoluzione di un essere umano può dedursi soltanto dalla misurazione, ad esempio, della statura o dal fatto che i vestiti e le scarpe non gli entrano più, allo stesso modo l’evoluzione dal latino al dialetto si può scorgere soltanto in pochissimi documenti che attestano l’uso di una lingua diversa dal “latino classico”, ma che da esso discende. Abbiamo detto che le invasioni barbariche causarono la disgregazione territoriale dell’impero romano.
Gli effetti di questo fenomeno influenzarono anche il campo linguistico, connotato non solo dall’introduzione di termini fino ad allora estranei, ma anche da un fenomeno di allontanamento dalla lingua madre fino a quel momento unificatrice. Fu allora che il “latino classico” ed il “latino volgare”, partendo da un punto comune, cominciarono a percorrere due sentieri divergenti: il latino classico fu sempre più relegato al campo letterario e burocratico, mentre le parlate locali presero sempre più il sopravvento e si imposero in tutti gli strati sociali. Un discorso a parte, per quanto riguarda le influenze sul linguaggio, merita il Cristianesimo. Alla sua nascita, i cristiani utilizzavano il greco, lingua intrisa di termini tipicamente legati alla liturgia. Con il passare del tempo, il latino prese il sopravvento sul greco, sostituendosi ad esso e diventando la lingua ufficiale del Cristianesimo. La sopravvivenza del latino fu dovuta infatti a due eventi essenziali: il ruolo predominante della Chiesa Cristiana, da una parte, e l’inferiorità culturale dei barbari che conquistarono la penisola italiana, dall’altra. Fino all’VIII secolo circa, cominciarono a notarsi delle mutazioni nel latino parlato rispetto a quello scritto, grazie anche alla politica scolastica di Carlo Magno. Questa politica, segnata da un ritorno al latino classico, fu attuata da Alcuino, un monaco anglosassone, direttore della Schola Palatina e braccio destro di Carlo Magno.

Tra il VI e l’XI secolo, la situazione dell’area campana era come segue: da un lato c’era il Ducato longobardo, con capitale a Benevento, che si estendeva dalla valle del Sangro e del Volturno a tutta la Campania; dall’altro, le popolazioni romano-bizantine, che controllavano anche Gaeta, Amalfi e Napoli, continuando i traffici verso il Mediterraneo orientale e Costantinopoli. Il greco era adoperato in diversi ambiti, non solo in quelli agiografici e letterari ed in questo periodo entrano a far parte del lessico napoletano alcuni grecismi: cannela, thius, potecha, platamone (luogo pianeggiante, da cui il toponimo “Chiatamone”), caccavo. Anche i Longobardi, tuttavia, lasciarono tracce lessicali del loro passaggio. Alcune di queste tracce si possono riscontrare in alcuni toponimi come Sala Consilina o Atripalda, ma anche pizza (da pezzas, ritrovato per la prima volta in un documento salernitano dell’836) e zizza (seno)

I primi documenti
È ormai fuori di dubbio che i quattro Placiti Cassinesi, datati tra il 960 e il 963, sono unanimemente considerati i primi documenti in “lingua italiana”. Da questo punto in poi, si può dire che i documenti scritti in una lingua diversa dal latino cominciano ad essere sempre più frequenti , anche se il latino comincia a fare la parte del leone. Ma questi primi documenti segnano una tappa fondamentale nella formazione dei dialetti, che si evolsero dal progenitore comune latino, ormai disgregatosi dopo la caduta dell’impero romano.

Gioia Nasti
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