La cucina napoletana nei secoli

Il primo libro di cucina napoletano risale agli inizi del 1300; fu scritto da un cortigiano di Carlo II d’Angiò sotto il titolo Liber de coquina ed è un vero e proprio ricettario in latino; contiene ricette provenienti da corti diverse dell’Europa occidentale, ma privilegia la cucina francese e napoletana.
Un altro libro simile lo troviamo nel Quattrocento con il titolo Due libri di cucina; in questo testo le lingue utilizzate sono il latino e l’italiano. Le ricette descritte sono molto raffinate, e soprattutto costose, da preparare, solitamente ispirate a banchetti ufficiali o cerimonie. Tra le altre ricette, anche quella del biancomangiare, famosissima a Napoli.
Nel 1588, Giambattista del Tufo scrive il Ritratto di Napoli, nel quale elenca tutte le pietanze del suo tempo. La città era già molto famosa per i suoi piatti prelibati, in cui frutta e verdura erano gli ingredienti principali, affiancati dal pesce, abbondante e pregiato e cucinato in diverse maniere. Il tutto innaffiato dai vini deliziosi del Vesuvio ed accompagnato dai dolci e dalle paste preparate solitamente nei conventi.

Fu nel Seicento che il cibo divenne, oltre che nutrimento, occasione per riunirsi; davanti ad un ottimo ed abbondante pasto si incontravano i nobili. La cuccagna, che offriva ogni bene di formaggi e salumi, pane e carne, era il momento più atteso e culminante del Carnevale. Fu anche il periodo in cui dall’America arrivarono nuovi ingredienti, come i pomodori, le melanzane, le patate, il tacchino, i fagioli, il cacao. Tutti questi nuovi ingredienti cambiarono radicalmente la cucina napoletana, soprattutto il pomodoro. Questo è anche il secolo in cui si fanno strada i maccheroni; la pasta viene lavorata con trafile diverse, dando così origine alle varie forme di pasta; la salsa al pomodoro diventa ben presto la più comune ed utilizzata per condirli.

Con il Settecento, invece, il gusto cambia. Il gusto francese comincia sensibilmente a prevalere su quello mediterraneo, supportato soprattutto dal decennio francese a Napoli. La nuova cucina francese non è molto gradita ai napoletani: le pietanze nei piatti sono scarse, vengono utilizzate numerose salsine in molte portate. Anche la regina Maria Carolina, moglie di re Ferdinando IV, predilige il gusto francese, imitata a ruota da nobiltà ed alta borghesia. Così, le famiglie più agiate assumono i cosiddetti monsieurs (in napoletano monzù) al loro servizio e addirittura alcuni piatti tipicamente napoletani vengono “ribattezzati” con nomi dal sapore francese: crocchè, gattò, ragù. Di questo periodo è il cuoco Vincenzo Corrado, al servizio del Principe di Francavilla; suo Il cuoco galante, scritto nel 1773, in cui viene valutato il gusto tipicamente napoletano nella sua intera tradizione. Nel 1820, invece, nel Trattato istorico, disquisiva sulle regole per abbrustolire, macinare, bollire e conservare il caffè.

Nell’Ottocento, la cucina napoletana viene descritta abbondantemente dai tanti viaggiatori che affollano la città. È soprattutto la cucina di strada a primeggiare, con i maccheroni, i frutti di mare, l’acqua ferrata, le angurie, i dolci zuccherini. In questo secolo Ferdinando II apre la prima fabbrica industriale di pasta, a cui seguono molte altre, soprattutto in zone in cui soffia un vento secco, che contribuisce a far asciugare la pasta più in fretta.
Il Novecento vede, invece, il trionfo della cucina regionale, che pian piano si espande in tutta Italia e travalica quindi i confini delle singole regioni; è anche il periodo in cui ormai piatti tipici napoletani, come gli spaghetti e la pizza, vengono esportati in tutto il mondo.

Gioia Nasti
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